Italia: costretto a urinarsi addosso per paura di perdere il lavoro

di Daniele Reale

Credevo di averle sentite tutte ormai, tra donne incinte licenziate, commessi costretti a lavorare 6 giorni su 7, chi si suicida a causa del troppo lavoro, chi perché non lo trova, e poi i braccianti che raccolgono pomodori a 2 euro l’ora… ma poi ho letto la notizia dell’anno: “Costretto a urinarsi addosso”.

Restrooms

Succede alla Sevel, stabilimento del gruppo FCA, ex Fiat di Atessa, dove un operaio dopo ripetute richieste di urgenza per recarsi in bagno, al quale è stata negata la richiesta, alla fine se l’è fatta addosso…

A questo siamo arrivati in Italia, urinarsi addosso per paura di venire rimproverati o peggio licenziati. Ovviamente, la colpa è delle regole disumane dell’azienda, ma anche dello stesso operaio, che intimidito dall’autorità aziendale ha preferito ledere la propria dignità, piuttosto che ribellarsi all’assurdo divieto.

Fare pipì è un bisogno primario, e viene prima dello stipendio. Per chi non lo sapesse, trattenere per troppo tempo l’urina nella vescica, porta all’allargarsi della stessa con gravi conseguenze per la salute. Attraverso l’urina vengono eliminate sostanze acide e ammoniaca; quini se queste vengono trattenute, poco a poco, possono causare danni alle pareti del tratto urinario e della vescica. Questo indebolimento fa aumentare il rischio di soffrire di diversi tipi di infezioni, a causa della facilità che hanno i microorganismi di entrare e proliferare nel sistema. Trattenendo il liquido per molto tempo, i reni cominciano a formare piccole pietre con il calcio, il fosfato, l’ammonio e il magnesio, che si accumulano fino a formare i famosi calcoli renali.

Questa volta dunque non mi schiero in difesa dell’operaio, in quanto essendo padrone del suo corpo ha il dovere di prendersi cura di esso, e ad ordini pignoli e disumani doveva rispondere con la disobbedienza, recandosi in bagno ugualmente. Questo episodio, tuttavia, mette in evidenza ancora una volta l’era oscura nella quale stiamo affogando, dove il lavoro, in una cosiddetta Repubblica fondata sul lavoro, dimostra ancora una volta essere lontano dal somigliare a qualcosa di dignitoso. Oggi, inoltre, al contrario degli schiavi dell’antichità che avevano coscienza delle proprie catene ed il cui scopo era liberarsene, ci troviamo invece di fronte alla situazione opposta: schiavi che non sanno nemmeno di essere schiavi, uomini senza spirito di ribellione, pronti a tutto pur di non perdere le proprie catene.

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Articolo di Daniele Reale

Fonte: http://laschiavitudellavoro.blogspot.it/2017/02/italia-si-e-arrivati-pisciarsi-addosso.html

SCHIAVI DI UN DIO MINORE
Sfruttati, illusi, arrabbiati: storie dal mondo del lavoro di oggi
di Loredana Lipperini, Giovanni Arduino

Schiavi di un Dio Minore

Sfruttati, illusi, arrabbiati: storie dal mondo del lavoro di oggi

di Loredana Lipperini, Giovanni Arduino

Gli schiavi di un dio minore vivono tra noi, anche se non li vediamo. Ne rimangono tracce sui giornali: il trafiletto su un bracciante morto di stenti in un campo di raccolta, l'editoriale sui magazzinieri che collassano a fine turno. Quelli che invece vivono lontani sono ridotti a numeri, statistiche: il tasso di suicidi nelle aziende asiatiche dove si producono a poco prezzo i nostri nuovi device, la paga oraria delle operaie cinesi o bengalesi che rendono così economici i nostri vestiti. D'altra parte si sa, l'abbattimento dei prezzi, senza intaccare i guadagni, si ottiene sacrificando i diritti e a volte la vita dei lavoratori, a Dacca come a Shenzhen o ad Andria. 

Ma non si tratta solo di delocalizzare o impiegare manodopera immigrata. La schiavitù si insinua nelle pieghe della modernità più smagliante: non c'è in fondo differenza tra i caporali dei braccianti e i braccialetti elettronici, i microchip, le telecamere e le cinture GPS, strumenti pensati per la sicurezza ma votati al controllo. Per non parlare della mania del feedback, del commento con le stellette, l'ossessione per il costumer care che mentre coccola il cliente dà un altro giro di vite alla condizione dei lavoratori. 

E dove manca il padrone, c'è lo schiavismo autoinflitto dei freelance, che sopravvivono al lordo delle tasse, senza ferie pagate, contributi, tempo libero. Indipendenti, sì, ma incatenati alle date di consegna e al giudizio insindacabile dei committenti, ai loro tempi biblici di pagamento. 

Nella trionfante narrazione dell'oggi, tutta sharing economy, start up e "siate affamati, siate folli", non c'è spazio per questi schiavi moderni. Ed è proprio raccogliendo le loro storie, le loro voci soffocate, che Giovanni Arduino e Loredana Lipperini smascherano gli inganni del nostro tempo, in cui la vita lavorativa si fa ogni giorno più flessibile, liquida, arresa: se la struttura legislativa del lavoro si smaterializza, tornare a parlare di corpi, a far parlare le persone, è un modo per non rassegnarsi e resistere.

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Un commento

  1. Brutta storia ma non è la prima volta che si sente.
    Anche a me il primo anno che lavoravo è successa una cosa simile, ma in quel caso è stata anche colpa mia. Avrei dovuto andarci in pausa, sapevo che poi per le successive tre ore non avrei potuto allontanarmi. Quindi non ho neppure chiesto il permesso e ogni tanto mi facevo un po di pipì addosso per diminuire la pressione sulla vescica. Fortuna che la tuta era scura e non si notava quasi niente

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