Identità Europea, un processo ancora in divenire

di Francesco Gavazzi

Nell’ultimo decennio, causa una sfortunata serie di congiunture internazionali, numerosi sondaggi hanno riportato dati (per alcuni) preoccupanti, circa il gradimento dei cittadini per l’Unione Europea e le sue istituzioni, registrando talvolta minimi storici.

Pur senza cedere ad allarmismi ed isterismi collettivi – quali un irreversibile effetto domino post Brexit o una prossima implosione dell’Unione Europea – è comunque necessario chiedersi perché queste indagini demoscopiche abbiano prodotto tali risultati, a cosa siano dovuti e se vi sia una via percorribile per porvi rimedio.

Trovare la causa, il quid, di questo diffuso malcontento potrebbe apparire un compito apparentemente semplice: anni di crisi economica hanno intaccato l’elevato standard di vita dei cittadini europei, i quali, traditi nei loro sogni da questa entità tricefala, hanno iniziato a percepirla come qualcosa di lontano, da cui guardarsi se non addirittura di cui aver paura, avendo quindi la percezione di essere governati da questo immenso burattinaio chiamato Unione Europea; una sorta di deus ex machina che decide arbitrariamente delle vite di oltre 500 milioni di persone.

Una profonda recessione economica, unita ad una mancanza di democrazia sono dunque i leitmotiv di questo dilagante euroscetticismo. Difficile asserire il contrario. Eppure, nonostante la poca attenzione dedicatagli, vi è un’altra questione essenziale: quella dell’identità europea. Senza dubbio la base fondante per l’Europa del futuro, senza la quale l’intera struttura dell’Euro(pa) zona non potrà sussistere.

Parlare di identità europea in maniera esaustiva – ammesso e non consesso che sia effettivamente possibile – risulterebbe un compito particolarmente arduo; troppe le tematiche e le sfaccettature da analizzare. Sarà quindi sufficiente tenere a mente che, fin dalle sue origini, l’Unione Europea si è impegnata nel definire una sua identità, una sua specifica connotazione socio-culturale oltre che economica. La domanda principale – oggi come allora – era chi poteva entrare, chi no e su quale base; quesito cui facevano da cornice una serie di tematiche profondamente collegate, quali: Cos’è l’Europa? Quali i suoi confini? Su quali criteri costruire il “noi” in risposta all'”altro”?

L’identità, infatti, non è un qualcosa di fisso ed immutabile, è un continuum fra essere e divenire, una costruzione adattativa del proprio io: l’allargamento ad est dell’Unione Europea, fatto ritenuto inverosimile fino a pochi anni prima del suo avvenimento, si è dunque rivelato necessità ineluttabile per la ridefinizione dell’equilibrio geopolitico dello scacchiere europeo ed internazionale.

Come scriveva Malek Chebel – filosofo ed antropologo francese – “una struttura soggettiva (…) è caratterizzata dalla rappresentazione dell’interazione tra l’individuo, gli Altri (prerequisito all’esistenza di un’identità: vedere un sé come uno e farsi vedere dagli altri come tale) e il contesto (come il materiale agente di identificazione)”.

Se è vero che la costruzione di un’identità richiede sempre un’alterità opposta, se non addirittura antagonista, è altrettanto vero che, nel corso dei secoli, è stato l’Islam a costituire tale funzione nei confronti di una presunta identità europea. Negli ultimi anni, ormai potremmo dire nell’ultimo ventennio, il mondo islamico è diventato lo specchio se non addirittura il metro di paragone della nostra identità, con tutto ciò che ne consegue. A rendere ancora più instabile un rapporto già sufficientemente delicato, è intervenuta poi la recente crisi migratoria, che ha scatenato un vero e proprio proliferare di accesi dibattiti e discussioni sulla compatibilità o incompatibilità fra il loro mondo ed il nostro, fra gli altri e l’Europa.

L’Europa sta vivendo una crisi migratoria” è il titolo di molti giornali; vero, anzi verissimo se si pensa che molti demografi hanno sottolineato che nel 2014, il Vecchio Continente per la prima volta nella storia ha superato gli Stati Uniti come meta per migranti e profughi, all’incirca 1,9 milioni di persone contro il milione di nuovi arrivati sul suolo americano, stando alle stime di Françoise Héran, sociologo e demografo francese. Ma se la precedente affermazione è vera, è altrettanto vero che questi flussi migratori stanno andando incontro ad un’Europa in crisi d’identità, le cui cause non sono certo da rintracciare negli avvenimenti degli ultimi anni. La costruzione e l’immagine che l’Occidente ha dato di sé al mondo è, sfortunatamente, assai più labile e meno solida di quanto non si voglia far credere. Ecco allora che il dibatto sulle radici europee torna, oggi più che mai, attuale.

L’Islam, il nostro principale alter ego, deve essere considerato parte integrante e costitutiva dell’identità europea o solo qualcosa di sfondo, di marginale? Certamente sarebbe difficile dubitare degli apporti della tradizione araba nella matematica, nella scienza, nella filosofia ed in molti altri campi ancora. Non a caso la nostra conoscenza dei grandi pensatori di cultura greca passa anche dalla “riscoperta” araba di Platone e Aristotele. Un lavoro certamente apprezzato e di fondamentale importanza, ma che risulta spesso poco più che filologico agli occhi di molti. È come se i grandi padri del pensiero occidentale fossero stati riscoperti sì dal mondo arabo, ma da questo non capiti o non voluti capire fino in fondo.

Come d’altronde siamo noi che spesso non riusciamo a comprendere fino in fondo il mondo musulmano, etichettando con la parola Islam una realtà di oltre un miliardo di persone, fra loro estremamente diverse. L’Islam diventa così un attore, non sono più i musulmani a scrivere la loro storia in quanto individui, ma è la loro religione a determinarne il destino quasi spogliandoli del libero arbitrio. Parlando in termini più prosaici, ciò che ci interroga sull’universo Islam è se il suo concept di valori relativi a diritti delle donne, diritti delle minoranze, religione e democrazia sia compatibile al nostro, a quello del “più civilizzato” Occidente.

Ci si aspetta, a torto o a ragione, che le minoranze si adattino completamente alla scala valoriale occidentale, spesso pretendendo che rinneghino una cospicua parte di sé, del proprio bagaglio culturale: un’accettazione che passa per l’eliminazione di tutti quegli elementi estranei al nostro vivere, una sorta di tentativo di creare un “Islam da laboratorio”, pulito e mondato delle sue componenti più “rocciose”.

Integrazione al prezzo della rinuncia di una propria parte; un compromesso dunque. Ma tale compromesso deve essere unidirezionale, oppure anche noi dobbiamo fare la nostra parte? Possiamo noi accettare concezioni che negano alla radice i fondamenti della nostra civiltà democratica per come la conosciamo? In questo caso, il protagonismo è affidato all’Islam, una rivoluzione culturale deve essere affermata; noi, da parte nostra, avremmo il dovere di fare da cornice a questa trasformazione, la quale possa traghettare l’Islam verso quell’approdo democratico capace di renderlo compatibile con le leggi che conosciamo, senza però cancellarne l’identità.

Infine, possiamo affermare che se verrà a mancare la nascita di un movimento islamico coerentemente e politicamente inserito in un disegno democratico, una sorta di quadratura del cerchio in seno all’Islam, la “battaglia di civiltà” sarà con ogni probabilità l’unica via percorribile.

Articolo di Francesco Gavazzi

Bibliografia:

  • Cheleb Malek, “La formation de l’identité politique“, Presses Universitaires de France, 1986.
  • Shadid Van Koningsveld, “Religious Freedom and the Neutrality of the State: The Position of the European Union“, Leuven: Peeters, 2002, pp. 158-173.
  • Tahar Ben Jelloun, “È questo l’islam che fa paura“, Milano, Bombiani, 2015.

Fonte: https://limesclubfirenze.com/2018/02/11/identita-europea-un-processo-ancora-in-divenire/

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