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In Pakistan la Vita dei Cristiani vale meno di quella degli elefanti…

di Caterina Giojelli

L’Alta Corte di Islamabad libera il pachiderma Kaavan. Il mondo esulta, il giudice fa un sermone sulla sofferenza e i diritti degli esseri viventi. E i diritti di Maira, Huma, Shafqat, invece non interessano nessuno?

Kaavan, Pakistan's Loneliest Elephant Who Has Been Living In ...

“L’ergastolo, senza aver commesso un delitto. Confinato in una cella sporca e angusta, incatenato, spesso bastonato”. Così Repubblica quattro anni fa raccontava la storia di Kaavan, quella di una “condanna ingiusta”, una storia di “catene, bastoni, digiuni forzati” in Pakistan che aveva indignato il mondo: per la libertà del giovane Kaavan si era battuta la cantante Cher, per il suo immediato rilascio 280 mila attivisti avevano firmato una durissima petizione, innescando una potente campagna mediatica. Poi, qualche settimana fa: il lieto fine, l’Alta Corte di Islamabad ha emesso un ordine di liberazione, fine dell’isolamento e della prigionia, fine dei maltrattamenti e delle disumane condizioni di prostrazione a cui era stato costretto Kaavan, ormai depresso e impossibilitato a darsi pace dopo la morte della compagna Shaeli, avvenuta nel 2012. Kaavan, nato in Sri Lanka nel 1985, è dunque finalmente libero.

Il giudice sulla sofferenza “inimmaginabile” del pachiderma

La sentenza è stata emessa a maggio, ma solo in questi giorni trovano eco le parole con cui il giudice Athar Minhallah ha disposto la liberazione del pachiderma maschio di 35 anni, che ha commosso l’Alta corte in questo drammatico frangente storico: secondo il tribunale l’emergenza Covid ha offerto agli esseri umani un’opportunità per “relazionarsi con il dolore e l’angoscia sofferti da altri esseri viventi causati dall’arroganza degli uomini”.

“Gli animali hanno diritti legali?”, secondo il giudice “la risposta a questa domanda è senza dubbio affermativa” in quanto esseri viventi. E Kaavan non solo è vivo ma “sta davvero soffrendo ed è stato sottoposto a dolore e sofferenza non necessari. È solo e l’entità della sua sofferenza è inimmaginabile… I bisogni di questa creatura innocente non possono essere soddisfatti nella prigione di uno zoo”. Applausi da Steven M. Wise, del Non-Human Rights project, secondo il quale il giudice Minhallah ha sostenuto “valori e princìpi di giustizia che ci proteggono tutti”. L’elefante è stato quindi liberato e trasferito in un santuario per gli elefanti in Cambogia, dove godrà di cure, compagnia e vita piena e libera da catene.

E la sofferenza dei due sposi (innocenti) nel braccio della morte?

Continua la persecuzione dei cristiani in Pakistan – Il Patto Sociale

E dei diritti e della sofferenza di Shafqat Emmanuel e Shagufta Kausar? Condannati all’impiccagione senza aver commesso un delitto. Confinati da quasi sette anni in una cella lontani dai loro quattro figli, con l’accusa di aver mandato nel 2013 messaggi di testo in inglese ritenuti blasfemi, loro, poveri e analfabeti, che non sanno scrivere in urdu e tanto meno in un’altra lingua.

Due coniugi che vivono nel braccio della morte, lui storpio, costretto sulla sedia a rotelle a cui è stata estorta una confessione sotto tortura, lei, prima di venire allontanata dai suoi bambini impiegata come donna di servizio in una scuola gestita dalla Chiesa cattolica a Gojra (Punjab), dove nel 2009 più di 100 case di cristiani sono state bruciate da una folla di estremisti islamici, in uno dei casi di persecuzione più famoso nel paese.

La morte di Bilal E Saima, le spose-bambine Maira e Huma

Shafgat e Shagufta non sono elefanti, sono cristiani, come le 200 persone condannate a morte ingiustamente (40 delle quali nel braccio della morte, in attesa di esecuzione) in base alla nota “legge di blasfemia”. Cristiani come Bilal Masih, percosso a morte dai suoi datori di lavoro musulmani per futili motivi di un debito di entità risibile. O come Saima Sardar, infermiera che ha rifiutato di convertirsi all’islam e di sposare un uomo musulmano e per questo è stata uccisa a Faisalabad.

Cristiani come la piccola Maira Shabbaz, la ragazzina di 14 anni rapita lo scorso 28 aprile da un commando di uomini islamici, costretta a convertirsi all’islam e sposare uno dei suoi rapitori: per lei nemmeno un “santuario” dove ricevere cure e conforto dopo la sentenza del Tribunale di Faisalabad, che riconoscendo la sua minore età aveva ribaltato il verdetto di giudici in primo grado, disponendo l’immediato allontanamento della ragazzina dalla casa del rapitore in un rifugio per donne a Dar ul Aman: in pochi giorni, l’Alta Corte di Lahore ha nuovamente ribaltato la sentenza e costretto Maira a tornare dal suo “sposo”.

Questo accadeva due settimane fa, mentre i giudici di Karachi emettevano un ordine di comparizione per lo sposo-aguzzino di un’altra ragazzina rapita, violentata e ora incinta, Huma Younas. L’8 agosto, i suoi genitori hanno rivolto un drammatico appello ad Aiuto alla Chiesa che Soffre e ai media internazionali, “aiutateci a riportarla a casa”.

In che modo l’emergenza Covid dovrebbe stimolare una riflessione su “il dolore e l’angoscia sofferti da esseri viventi” e inflitti dagli uomini? Non sono Maira o Huma esseri innocenti costrette alla prigionia al pari di un elefante dello Sri Lanka? E in che modo la morte di Bilal e Saima e sentenze sui cristiani incarcerati come Shafgat e Shagufta rispecchierebbero valori e princìpi di giustizia?

Articolo di Caterina Giojelli

Fonte: https://www.tempi.it/in-pakistan-la-vita-dei-cristiani-vale-meno-di-quella-di-un-elefante/

LE RADICI DELL'ODIO
La mia verità sull'islam
di Oriana Fallaci

Le Radici dell'Odio

La mia verità sull'islam

di Oriana Fallaci

"Abbiamo paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l'esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio."

Oriana Fallaci ha pronunciato queste parole nel 2005 quando decide di raccontare il suo "diritto all'odio". Sono riflessioni che ancora oggi, a distanza di dieci anni, risultano drammaticamente attuali, così come molti suoi brani finora inediti in cui affronta il conflitto con l'Islam senza mezzi termini né concessioni.

"Ho visto le mussulmane la cui vita vale meno di una vacca o un cammello" scrive una giovanissima Oriana nel suo primo reportage sulla condizione delle donne nei paesi islamici. "Vi sono donne nel mondo che ancora oggi vivono dietro la nebbia fitta di un velo come attraverso le sbarre di una prigione." Una prigione che si estende dall'oceano Atlantico all'oceano Indiano percorrendo il Marocco, l'Algeria, la Nigeria, la Libia, l'Egitto, la Siria, il Libano, l'Iraq, l'Iran, la Giordania, l'Arabia Saudita, l'Afganistan, il Pakistan, l'Indonesia: è il mondo dell'Islam, dove nonostante i "fermenti di ribellione" le regole riservate alle donne sono immote da secoli.

Le cronache di Oriana proseguono poi dal deserto palestinese dove riesce a infiltrarsi nelle basi segrete della guerriglia araba e a incontrare tutti i capi di Al Fatah, Arafat e perfino un dirottatore aereo e una terrorista responsabile di una strage in un supermarket di Gerusalemme. Pochi anni dopo ascolterà invece i superstiti della tragedia di Monaco, che le racconteranno quella notte drammatica in cui il commando arabo fece irruzione nella palazzina del Villaggio Olimpico. Riuscirà poi a intervistare tutti i protagonisti del destino del Medio Oriente, re Hussein, Golda Meir, Khomeini, Gheddafi, Sharon.

Tornerà nel deserto durante la prima guerra del Golfo per raccontare quello che non era solo un conflitto tra l'Iraq e noi ma "una crociata all'inverso", uno scontro appena iniziato che sarebbe culminato poi nell'orrore dell'11 settembre. Lo sgomento provato davanti al crollo delle due torri la spingerà a scrivere di getto quella che doveva essere una "lettera sulla guerra che i figli di Allah hanno dichiarato all'occidente" e che diventò un fenomeno editoriale senza precedenti.

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