di Marta Erba
Ce n’era uno quasi in ogni famiglia. Erano l’eredità (a lungo rimossa) della Prima guerra mondiale: uomini tornati dal fronte sotto shock, con gravi disturbi mentali.
Durante e dopo la Prima Guerra Mondiale migliaia di soldati furono ricoverati per disturbi mentali: negli ospedali si trovavano reduci estraniati e muti, che camminavano come automi, con i muscoli irrigiditi. La gente li chiamava ingiustamente “scemi di guerra”. Ma chi erano davvero?
Le cartelle cliniche parlavano di “tremori irrefrenabili”, di “ipersensibilità al rumore”, di “uomini inespressivi, che volgono intorno a sé lo sguardo come uccelli chiusi in gabbia, che camminano con le mani penzoloni e piangono in silenzio o che mangiano quello che capita, cenere, immondizia, terra”.
“Shell shock”
Questi quadri clinici suscitarono subito l’interesse degli psichiatri, specialisti allora emergenti (in Italia erano stati riconosciuti ufficialmente nel 1872 ed erano diventati molto influenti a partire dal 1904, grazie alla legge che istituiva i manicomi). Su Lancet, tra le riviste mediche più autorevoli, nel 1915, lo psicologo Charles Myers usò per la prima volta l’espressione shell shock, “shock da bombardamento”o, come lo chiameremmo oggi, “disturbo da stress post-traumatico”.
Myers ipotizzava che le lesioni cerebrali fossero provocate dal frastuono dei bombardamenti oppure dall’avvelenamento da monossido di carbonio. Ma presto fu chiaro che alla base di questi disturbi c’era qualcos’altro, dal momento che i sintomi si manifestavano anche in persone che non si trovavano in prossimità di bombardamenti.
Isteria
Il neurologo francese Joseph Babinski, nel 1917, attribuì i sintomi a fenomeni di isteria, disturbo che si riteneva diffuso solo tra le donne (isteros significa utero, in greco). Suggerì quindi di curarlo come allora si trattava l’isteria femminile: con l’ipnosi. E in effetti i trattamenti talvolta funzionavano, nel senso che i sintomi scomparivano o si riducevano. Si diffuse perciò l’idea che questi quadri clinici fossero frutto di simulazioni, messe in atto per non combattere ed essere congedati.
Il che diede il via libera all’accusa di “femminilizzazione” o di “omosessualità latente”, e a una serie di trattamenti di tipo decisamente punitivo, come le aggressioni verbali e le “faradizzazioni”, forti scosse di corrente elettrica alla laringe (in caso di mutismo) o alle gambe (in caso di immobilità).
Il “caso Italia”
“Questa disciplina feroce fu messa in atto soprattutto in Italia, dove persistevano atteggiamenti ispirati alle idee di Cesare Lombroso, che classificavano il malato come un essere inferiore, un soggetto debole e primitivo”, sottolinea Bruna Bianchi, studiosa della Grande guerra presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e autrice di “La follia e la fuga” (Bulzoni editore).
“Inoltre, in un Paese in cui la leva era obbligatoria, non si voleva attribuire alla guerra la causa del disagio psichico: meglio sostenere che il conflitto contribuiva a rivelare devianze o degenerazioni in individui già predisposti”.
Rimozione
Anche per questo, in Italia, quella dei traumi psichici conseguenti alla Grande guerra, fu una pagina presto chiusa e rimossa. E se circa 40.000 uomini con disturbi mentali finirono rinchiusi nei manicomi statali, una quantità ben più numerosa fece ritorno a casa e in quelle condizioni fu accolta dalle loro famiglie.
E fu qui, anche per prendere le distanze dal carico emotivo di quegli sguardi assenti e per poter ricominciare a vivere dopo il trauma collettivo dell’esperienza bellica, che la gente prese a chiamare quei giovani uomini con un termine feroce e ingiusto: “scemi di guerra”.
Articolo di Marta Erba
Tratto da: “Non chiamateli scemi di guerra” di Marta Erba – Focus Storia 103 (maggio 2015).
Fonte: https://www.focus.it/cultura/storia/chi-erano-gli-scemi-di-guerra