Report sullo stato dell’Italia

di Domenico Ocone

Una serie di dati pubblicati sul bollettino periodico dell’Istat merita una valutazione approfondita, al fine di ottenere una visione maggiormente attendibile della loro reale influenza sull’economia del paese.

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Da essi si può rilevare che è in atto una manovra di ridimensionamento nel senso di crescita delle nostre industrie, soprattutto quelle del settore manifatturiero. Di conseguenza, è in diminuzione, soprattutto nella zona nord del Paese, il numero delle piccole aziende a vantaggio di quelle medie. Ciò sta accadendo perché, in periodi di forte incertezza delle prospettive di crescita della produzione, l’adozione drastica di strategie volte ad ottenere riduzioni dei costi, soprattutto di quello del lavoro, diventa un imperativo categorico per poter rimanere sul mercato.

Presumibilmente la tendenza in atto del nostro sistema industriale, è una strategia di difesa del tipo “serrare i ranghi” contro generici, disparati e imprevedibili venti di crisi, generalizzati e a livello globale. È questo un modo per cercare di rimanere a galla nelle acque agitate della recessione, più precisamente definibile congiuntura economica negativa. Trattandosi di uno di quegli eventi ciclici che prescindono in buona parte dall’attività umana, ad essa si può solo resistere, nell’attesa che evolva verso il quadrante positivo.

Sembra molto lontano il tempo, intorno alla fine del secolo scorso, in cui era diventato quasi un refrain “piccolo é bello” riferito al sistema produttivo italiano. Confindustria lo adoperò a lungo per sottolineare che era uno dei punti di forza dell’apparato produttivo del Paese. Le motivazioni addotte erano la grande flessibilità della produzione, che connotava questo tipo di aziende e la altrettanto notevole capacità di soddisfare in tempi ristretti nuove esigenze del mercato. Era questo tipo di imprenditoria valido sì, ma solo se riferito ad un certo contesto sociale e in un determinato momento storico.

In Italia, gli ultimi decenni del ventesimo secolo furono caratterizzati da crisi pesanti di colossi industriali: ad esse non scampò nemmeno la FIAT. Era la rigidità del mercato del lavoro uno degli elementi che toglievano energie al comparto e, allo stesso tempo, la tendenza all’investimento privato era fortemente ridotta. La piccola industria, avendo limiti più contenuti, sia per quanto riguardava la gestione del personale, sia per il fabbisogno finanziario, poté invece conquistare posizioni di un certo peso nel panorama economico dell’epoca.

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Con l’evolvere di situazioni geopolitiche importanti (U.E, Russia, Cina, India ed altre), i modelli del commercio internazionale si sono indirizzati principalmente verso i grandi numeri. Anche aziende ad alto valore aggiunto, come quelle del fashion, hanno avuto la necessità di confluire, in tutto o in parte, in società internazionali (holdings) per poter reggere una valida espansione globale.

Tutto quanto elencato è di aiuto per tentare di intervenire sui problemi dell’Italia, ma non sul più importante: la fiducia nel sistema paese. Essa si può solo conquistare, non acquistare. Occorrono tempi lunghi per guadagnarla, brevissimi per perderla. Quindi è d’obbligo essere seri, soprattutto per chi ci governa.

Articolo di Domenico Ocone

Rivisto da Conoscenzealconfine.it

Fonte: https://www.rivoluzione-liberale.it/38816/economia/report-sullo-stato-dell-italia.html

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