di Alessandro Montanari
Con una scelta passata in sordina, la Camera dei Deputati ha deciso di regolarizzare l’attività dei lobbisti, riservando ai “portatori di interessi” – questa la pudica denominazione adottata – una stanza dedicata e persino un registro professionale sulla propria pagina web.
Alla stessa maniera di chi ritiene di sconfiggere la droga legalizzandone il commercio e aprendo “stanze del buco”, si è scelto dunque di combattere l’influenza del denaro sulla politica, legittimandola de facto e trasferendo nei corridoi del Transatlantico gli oscuri mercimoni che prima, quantomeno, dovevano svolgersi al riparo da occhi indiscreti.
Come immaginerete c’è chi ha giudicato quest’innovazione come una salutare ventata di pragmatismo liberale, ma personalmente dubito che autorizzare l’ingresso dei mercanti nel Tempio renderà un buon servizio all’attività legislativa che, giova ricordarlo, deve avere come orizzonte l’interesse pubblico.
Non credo peraltro che gli interessi privati soffrissero di insufficiente rappresentanza, potendo già essere espressi collegialmente, e dunque in modo assai più consono ed accettabile, dalle potenti associazioni di categoria del mondo produttivo e finanziario. Lasciare che ciascuno persegua i propri interessi da sé, attraverso un approccio individuale e selvaggio con la politica, rischia perciò di alterare anche la libera concorrenza, favorendo posizioni di mono od oligo-polio, oltre naturalmente ad esporre i deputati all’incresciosa tentazione di mettere all’asta i propri voti.
Ricordo infatti ai pragmatici, che sono sempre più frequenti i casi di politici che, terminata la carriera pubblica, finiscono ad ingrossare il parco consulenti di banche d’affari, società energetiche, aziende sanitarie, farmaceutiche, della sicurezza e persino del gioco d’azzardo. Quando simili notizie emergono, reagiamo tutti con sdegno e ce ne rammentiamo allorché qualcuno adombra ingerenze lobbistiche intorno a questioni di grande interesse pubblico e grande portafoglio come Ceta, Ttip, Tav, Tap, decreto vaccini, ogm e glifosato; poi però, quando abbiamo la possibilità di negare – come sostenevamo i latini – che “il denaro non ha odore”, lasciamo che gli uffici di Montecitorio vengano organizzati come un confortevole luogo d’incontro tra la domanda e l’offerta del tipo di politica che più ci disgusta.
Vorrei che comprendeste le ragioni del mio sfogo. Benché desolato da questa deriva mercantile della Camera, in effetti non me ne posso certo dire sorpreso. Anzi. Denunciando da tempo, e in una solitudine talvolta davvero scoraggiante, questo rovinoso processo di privatizzazione della politica, posso solo constatare che siamo giunti all’esito programmato. Ma vi dirò di più: l’ingresso trionfale dei lobbisti nel Palazzo è colpa nostra, essendo la logica conseguenza di quell’abolizione del finanziamento pubblico per mezzo della quale, scioccamente, pensavamo di poter moralizzare i partiti.
Accecati dal sacrosanto disgusto per le ruberie della Prima Repubblica, che ovviamente non sono cessate nella Seconda, né cesseranno in una Terza o Quarta Repubblica, non siamo stati in grado di discernere che il finanziamento pubblico consente, almeno in via di principio, ai partiti di orientare la propria attività all’interesse generale, mentre dipendere dai finanziamenti privati li indirizza fatalmente alla rappresentanza di interessi particolari.
So bene a quali tipi di obiezioni vado incontro. Mi rinfaccerete che i partiti della Prima Repubblica hanno dilapidato montagne di denaro, che hanno impiegato i soldi dei contribuenti per alimentare corti e clientele e che, nonostante ciò, sono stati permeabili agli interessi privati. Non posso che darvi ragione. Ma, se la mettete su questo piano, vincete sempre la partita senza nemmeno doverla giocare.
Io penso infatti che quel sistema, in particolare se rinforzato da un severo obbligo di trasparenza dei bilanci e da pene più aspre, consentirebbe ad un “partito degli onesti” di sopravvivere e di operare nell’ottica del bene comune e sfido chiunque a dire che non si tratterebbe di un esito desiderabile. E’ un grande filosofo della politica come Jean-Jacques Rousseau, del resto, a ricordarci che “il denaro che si possiede è strumento di libertà, mentre quello che si insegue è strumento di schiavitù”. Dunque sarebbe ora di ammettere che abbiamo scelto di togliere alla politica questa libertà, rendendola schiava della ricerca del denaro.
L’azzeramento del finanziamento pubblico, scattato ufficialmente a partire dal 2017, ha infatti trasformato i partiti in forzati della questua, costretti a scegliere se tendere la mano ai grandi magnati o agli stessi cittadini dei quali si vorrebbero risolvere i problemi, il primo e più importante dei quali è oggi, come noto, l’indigenza. Ma se i partiti del popolo devono chiedere soldi ai poveri, staranno freschi e, soprattutto, staranno freschi i poveri…
Una recente inchiesta di Repubblica ha dettagliato i numeri di questo nuovo metodo dell’autofinanziamento. Dai dati emerge che nel 2016, ad esempio, solo 2 italiani su 100 hanno destinato il loro due per mille ad un partito e che per la prossima campagna elettorale, la politica potrà disporre solo di 11 milioni a fronte di un costo stimato complessivo di oltre 50. Capite bene come questa situazione metta di fronte ciascun leader, anche chi proprio non vorrebbe porselo, ad un dilemma: rivolgersi ai lobbisti, rassegnandosi ad accoglierne le richieste, o accettare di partecipare ad una gara impari tra gli squattrinati rappresentati del popolo ed i ricchi portavoce del capitalismo globale?
Prima di rispondere ripensate al Ttip, al Ceta, alla Tav, alla Tap, al decreto vaccini, al glifosato e a tutti quei provvedimenti che, in questi anni, hanno alimentato i vostri sospetti. Poi, con calma, decidete se chi li ha combattuti dispone delle stesse armi di chi li difende. Alle vostre riflessioni, intanto, mi permetto di aggiungere un numero, tratto da un’ottima inchiesta di Report: nella sola Bruxelles, dove viene prodotto l’80 per cento del nostro diritto nazionale, lavorano 33mila lobbisti. Ho la sensazione che un assedio militare al Parlamento europeo, impiegherebbe un numero di soldati decisamente inferiore.
Grazie alla cortesia di chi ha abbassato il ponte levatoio, il lobbismo è ora entrato a testa alta anche nel nostro Parlamento, che è un Parlamento particolarmente fragile e sostanzialmente privo di strumenti legali adeguati alle raffinate evoluzioni del mercimonio politico-affaristico. In questa legislatura – ma fu così anche nella precedente e c’è ragione di credere che sarà così anche nella prossima – abbiamo avuto maggioranze alquanto strette. Questo vuol dire che per influenzare una legge può bastare una manciata di parlamentari, il cui operato oltretutto è, come noto, insindacabile e senza vincolo di mandato.
Chi potrà quindi dimostrare che un voto è stato condizionato da una lobby? Nessuno. Anche perché solo gli sciocchi, oggigiorno, commettono la grossolana ingenuità di compensare il servigio con arcaiche bustarelle, intercettabili e punibili ai sensi della legge. Molto più sicuro posticipare la gratitudine alla scadenza del mandato, offrendo al politico una nuova brillante carriera nel privato. Magari, volendo essere pudichi, come consulente. Magari, volendo essere sfacciati, proprio come lobbista.
“Il denaro che si possiede è strumento di libertà. Quello che si insegue è strumento di schiavitù”. Jean-Jacques Rousseau
Articolo di Alessandro Montanari
Fonte: http://interessenazionale.net/blog/lobbisti-parlamento-come-mercanti-nel-tempio