La vita senza “condizioni”

di Deepak Chopra

Sarà una Notte Meravigliosa

Sarà una Notte Meravigliosa

“Ero sicuro fin dall’inizio che sarei guarito. Non so spiegarvi perche’. Era come un segreto che dividevo con Dio. Io l’ho chiamato un dono perche’ non vi sono parole per descriverlo. Mi è stata donata una possibilità di rifarmi. Non sapevo come, sapevo solo che sarebbe successo, che niente avrebbe potuto impedirlo”.

Molti hanno ormai letto i racconti di coloro che hanno sperimentato per un attimo la morte, fatto che accade a migliaia di persone ogni anno. I dettagli variano da storia a storia, ma un tema comune a tutti è la comparsa improvvisa di una totale sensazione di sicurezza. Persone che tornano in vita dopo che il cuore aveva smesso di battere riferiscono spesso che, mentre “andavano verso la luce”, o volteggiavano sopra i loro corpi guardandosi dall’alto, si sentivano completamenti protetti.

Spesso questa sensazione permane anche quando riprendono a malincuore il possesso dei loro corpi. A questo punto trovano difficile preoccuparsi delle cose di cui uno dovrebbe preoccuparsi, specialmente di morire. Forse è proprio così che ci dovremmo sentire, anche senza l’esperienza di quasi-morte. L’esistenza può anche non essere una scelta, ma il modo in cui ci mettiamo in relazione con essa, lo è certamente.

Alcune persone crescono nutrendo la segreta sensazione di essere speciali. Si sentono protette dalla sorte, anche se probabilmente non riveleranno mai a nessuno tale incauta convinzione. Il dr. Irvin Yalon scrive a proposito di una donna che aveva creduto per anni alla sua straordinarietà fino a che era stata disillusa in maniera piuttosto traumatica: “…fu completamente sconvolta il giorno in cui venne rapinata da un borseggiatore nel parcheggio di un ristorante”.

Yalom scrive: “Ciò che la rapina soprattutto aveva messo in luce era la sua normalità, il suo… non avevo mai pensato che potesse succedere a me, che rifletteva la perdita della convinzione di essere speciale”. Egli non si riferisce ad alcun talento o dono speciale posseduto da questa donna. Apprezzare quel tipo di straordinarietà è un fatto estremamente razionale. Ma, sostiene Yalom, abbiamo anche un senso irrazionale di unicità, che serve come “uno dei nostri metodi principali per negare la morte”.

Eppure, ben lontani dal ritenerlo un aspetto positivo, gli psichiatri tendono a considerare questo modo di sentirsi speciale come non desiderabile e, quando la donna andò da Yalim per essere curata, l’obiettivo principale del medico fu quello di farle instaurare buoni rapporti con la sua normalità. Questo significava che doveva toglierle di dosso quella sensazione di essere protetta contro la morte.

Qui ci troviamo di fronte al ruolo ambiguo di autoprotezione della psiche. Il sentirsi sicuro dalla morte non è qualcosa a cui possiamo rinunciare facilmente; d’altra parte, se la paura della morte viene occultata a forza nella profondità del nostro subcosciente, potrebbe spargere dentro di noi un terrore clandestino, che noi ignoriamo a nostro rischio e pericolo.

Yalom prosegue: “Quella parte della nostra mente il cui compito è di mitigare il terrore della morte genera in noi la convinzione irrazionale di essere invulnerabili, che le cose spiacevoli come la vecchiaia e la morte possano essere la sorte degli altri ma non la nostra, che noi esistiamo al di là della legge, oltre il destino umano e biologico”.

Io ammetto che sia una meta che vale la pena di inseguire, quella di scacciare le delusioni e soprattutto di liberare la mente dalle paure nascoste, ma al di là del traguardo della salute mentale, vi è quello della libertà. Dove può cominciare la libertà se non da “quella sensazione di straordinarietà, di essere incantati, di essere l’eccezione, di essere eternamente protetti” che la psichiatria vuole soffocare? Tutte queste sensazioni vengono etichettate da Yalom come autoinganni. Eppure, anche pensare che sono illusioni può non essere altro che un’illusione più grande, almeno così dicono gli yogi.

Il punto di partenza dello yoga, è proprio questa sensazione di essere speciali o incantati o “protetti”. Senza questa sensazione, l’unica condotta equilibrata nella vita sarebbe quella di venire a patti con il mondo concreto e percepibile che abbiamo davanti agli occhi, completo del suo carico di dolore, di vecchiaia e di morte. Al massimo ci si potrebbe impegnare in una “paradossale battaglia”, come dice Montagne, contro un nemico che è destinato a vincere fin dal primo minuto di combattimento.

Molti, forse tutti, coglierebbero al volo l’occasione di sentirsi di nuovo speciali, ma il loro condizionamento li allontana recisamente da ogni possibilità. Lawrence LeShan è un famoso psicologo che, più di trent’anni fa, aprì la strada alla stupefacente teoria che il cancro abbia una componente personale. Egli sosteneva che diventare un malato di cancro non è altro che il prodotto finale di meccanismi di nevrosi risalenti all’infanzia. LeShan fu anche tra i primi ad usare la psicoterapia come mezzo per ridare vitalità agli istinti sepolti del malato di cancro, in particolare l’istinto di guarire.

LeShan capì che doveva cominciare a capovolgere i metodi della terapia convenzionale. Se una paziente affetta da cancro al seno va da un terapeuta convenzionale, egli metterà a fuoco principalmente i suoi sintomi. Messo di fronte al dolore psicologico della malattia, egli proverebbe a identificare la fonte precisa del dolore e a indebolirlo.

LeShan invece cerca di far diventare il cancro una svolta decisiva, con lo scopo non di ridurre i sintomi, ma di spingere il paziente verso nuove vette. Egli si concentra sull’unicità e individualità del paziente: una paziente affetta da cancro al seno che andasse da lui si sentirebbe dire che ha “una canzone speciale da cantare nella vita”, una fonte di gioia che appartiene solo a lei.

Il primo giorno della terapia, quando LeShan guarda i suoi pazienti e comunica questa meta, molto spesso ne riceve in cambio ostilità e rifiuto. Qui di seguito ci sono alcune risposte tipiche, prese dal suo libro “Cancer as a Turning Point”.

“Se avessi trovato la mia musica, sarebbe così dissonante che non mi piacerebbe e non piacerebbe neanche a nessun altro. Il mio modo di essere – naturale – è brutto e repellente. Ho imparato molto tempo fa a non manifestarlo per poter avere qualche relazione con gli altri o per poter convivere con me stesso”.
“Se avessi trovato la mia canzone e provassi a cantarla, scoprirei che non c’e’ posto nel mondo per uno come me”.
“La mia canzone avrebbe tali contraddizioni interne che sarebbe impossibile”.

Nella loro profonda angoscia, questi pazienti percepiscono il tentativo di aiuto del terapeuta come un’enorme minaccia. Respingono le sue mete “impossibili” e si aggrappano disperatamente ai valori “altruistici” che sono stati loro inculcati da bambini. Questi valori comprendono l’essere modesti ed educati, non perdere mai la pazienza, accondiscendere ai desideri altrui e via dicendo. Nella nostra società tutti i bravi bambini li hanno imparati. Ma, nella bocca dei pazienti di LeShan, questi valori hanno un suono spaventoso, come quello di un’anima soffocata.

Comunque la maggioranza di noi accetta gli stessi valori e, entro un certo limite, anche noi sentiamo che il mondo non ha nessuna voglia di sentire la nostra musica – l’espressione dei nostri sentimenti e dei desideri più personali – solo perché è nostra. Questo comportamento rivela una profonda mancanza di autoaccettazione.

Ma poiché siamo abbastanza sani da restarcene fuori da una terapia o da un reparto oncologico, non siamo tenuti a difendere la nostra vulnerabilità in maniera così scoperta come queste donne.

Ogni qualvolta le persone riescono a trovare la loro canzone, la loro profonda sfiducia in se stesse comincia ad allentare la presa, lasciando un po’ di spazio alla creatività. Si scopre così che la canzone è bellissima; la gente si accorge che può cantare senza venire punita e può anche guadagnarsi da vivere essendo se stessa.

“Inoltre”, fa notare LeShan, “in tutti i casi la canzone era socialmente positiva ed accettabile. Non mi è mai capitato di trovare un’eccezione”. Dietro il timore di essere unico, ognuno di noi ha un fortissimo desiderio di essere più unico e speciale possibile. In sostanza LeShan sta semplicemente chiedendo ai suoi pazienti di essere se stessi.

Come mai tale prospettiva è all’inizio così spaventosa? Perché, per quanto possiamo negarlo, laggiù nel profondo, tutti noi siamo stati feriti dal vedere i nostri desideri infantili calpestati, ma abbiamo accettato che avvenisse “per il nostro bene”. Un bambino necessita e chiede di essere rispettato come una persona unica nel suo genere, ma poiché è piccolo e ha disperatamente bisogno dell’approvazione dei genitori, sacrificherà i propri sentimenti per guadagnarsi il premio del loro amore.

La maggior parte di noi è stata nutrita dai genitori con il concetto di “essere buoni”, e vi ci siamo conformati anche se ciò faceva soffrire i nostri io infantili ancora egoisti. Come rivela la psicanalista svizzera Alice Miller, ci è stato insegnato a essere buoni prima ancora che VOLESSIMO essere buoni.

Questa può apparire una distinzione sottile, ma è quella che fa la differenza fra la libertà e la schiavitù nella nostra vita da adulti. Una volta cresciuto, posso essere perfettamente assuefatto a essere buono. Ogni volta che do qualcosa agli altri, mi sento superiore perché sono in grado di dare e mi dispiace per quelli che non possono.

Ma la cartina di tornasole è come mi sento quando sto dando. Sono veramente contento o sono un ipocrita? Mi aspetto qualcosa in cambio, come la gratitudine, la deferenza e il rispetto? O lascio che l’altro provi quello che vuole, qualunque sia la reazione? Il dare può essere segno di vera libertà, di disponibilità ad accontentarsi di meno perché qualcun altro possa avere di più.

Ma una persona che abbia imparato a mascherarsi da donatore è in completa schiavitù. Di che cosa? Del ricordo di ciò che deve fare per fare contenti i propri genitori.

Cominciando col desiderio di compiacere le proprie madri, abbiamo imparato a leggere come perfetti esegeti i più fievoli indizi di accettazione e rifiuto negli altri. A mano amano che ci adattiamo a questo modello esteriore, esso diventa una seconda natura, una specie di falso io. Si crea così una cesura fra le emozioni vere e quelle false, fra quello che dovrei sentire e ciò che sento in realtà.

Il processo è sottile ma infido. Se dura abbastanza a lungo, ci si dimentica di cosa significhi semplicemente essere, lasciare che felicità e tristezza affiorino quando voglio, dare o tenere come mi suggerisce il momento. Perché il falso io non sente veramente, calcola.

Una vita vissuta veramente è la congiunzione del cuore e della mente. Quando le sensazioni giungono, la mente le approva e si delizia in loro. Non è difficile verificare se qualcuno sta conducendo tale vita, perché vi dirà immediatamente che il miglior periodo che abbia mai trascorso è il presente. Questo è un certo segno che la mente non corre avanti al cuore in attesa né gli si trascina dietro nella nostalgia.

Il poeta cinese Wu-Men raccomanda:

Diecimila fiori in primavera,
la luna in autunno,
Una fresca brezza in estate,
neve in inverno.
Se la vostra mente non è annebbiata da cose inutili,
questa è la stagione migliore della vostra vita.

Se l’equilibrio fra cuore e mente viene turbato, specialmente se è stato distrutto il livello sottile del sentire, ecco che comincia un processo che chiamiamo razionalizzazione. Perché non sono felice in questo preciso momento?

“Adesso sono troppo occupato. Sarò felice quando avrò successo”.
“Oggi non è una buona giornata; sarò felice domani”.
“Non posso essere felice con te, non sei al mio livello”.
“Gli altri hanno così tanto bisogno di me che devo essere responsabile”.
“La vita è meno rischiosa se sei buono e ti uniformi alle regole”.
“Sarò felice quando otterrò ciò che voglio”.

In ogni frase si sente la vittoria della ragione sul cuore.

Essere felici non è più una cosa immediata; è diventata una prospettiva vicina o lontana, un’idea più che un sentimento. Nella meditazione, lo yogi cerca di liberare un sentiero per il sentimento, eliminando le “cose inutili” dalla sua mente, in modo da poter sperimentare veramente la soddisfazione interiore, che tutte le antiche scritture proclamano nostro diritto di nascita. Ogni qualvolta una persona riesce ad unire testa e cuore, quello è yoga.

La ricompensa per questa unione è immensa: ogni momento diverrà il migliore della vita. Uno yogi bilancia le qualità dell’intelletto e del sentimento, ma io penso che spesso lui propenda per il cuore. Circondato da gente (persino in India) che insegue il risultato senza raggiungere l’appagamento, egli sceglie per primo l’appagamento.

Egli non lascerà che la gente lo derubi dalle sottili sensazioni di gioia che giungono liberamente come foglie soffiate dal vento e altrettanto facilmente vengono spazzate via.

Tratto da: “LA VITA SENZA CONDIZIONI” di Deepak Chopra

Vai all’intervista a Deepak Chopra

Fonte: http://www.fiorigialli.it/dossier/view/6_i-sentieri-dell-essere/1207_la-vita-senza-condizioni

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