Il lavoro come mezzo di controllo sociale

di Mirco Mariucci 

In un mondo dominato dalle merci dove per sopravvivere si è costretti a procurarsi il denaro, il meccanismo di asservimento dei lavoratori si basa su di un semplice ricatto: o vendi la tua forza lavoro al capitale, oppure rischi di morire di fame.

Il Lavoro come mezzo di Controllo SocialeLa maggior parte degli individui non è libera di scegliere il lavoro che più gli piace e così, non avendo capitale a sufficienza per avviare l’attività che ha sempre sognato, è costretta a sottomettersi. Un normale contratto di lavoro consiste nella cessione di 8-10 ore al giorno della propria unica esistenza, che vengono messe a completa disposizione delle esigenze di profitto di altri esseri umani.

Ma i ruoli che il capitale ha ideato per i suoi subordinati, non sono pensati per essere piacevoli, aumentare la qualità della vita o rendere felice un essere umano. No! Essi sono il riflesso delle necessità del profitto. Se un imprenditore ha bisogno di mettere in piedi una catena di montaggio, ecco che nasce il ruolo dell’operaio; se invece ha bisogno di produrre o smaltire scartoffie burocratiche, arriva l’impiegato; se ha bisogno di realizzare schemi meccanici o elettrici, si sviluppa la figura del disegnatore. E così via…

Eppure nessun individuo sano di mente baratterebbe in modo spontaneo il proprio tempo esistenziale con un’attività che lo costringerà a una realtà ripetitiva, noiosa e logorante, rinchiuso all’interno di uno stabile, giorno dopo giorno, a prescindere dalla propria volontà, per 40 anni della sua unica vita.

Da qui, la necessità dell’azione coercitiva dell’induzione coatta al lavoro attuata anche attraverso il sistema economico. Senza un potente ricatto, infatti, nessun individuo sarebbe disposto a cedere la propria esistenza in cambio di un lavoro che non gli aggrada, requisito fondamentale in un mondo retto dal capitale.

L’attività lavorativa oggi è totalizzante e ruba energie psicofisiche ai lavoratori, che di ritorno a casa dopo una lunga giornata d’inutile asservimento, non hanno più forza e volontà per dedicarsi alle proprie vere passioni. Non è solo una questione psicofisica, anche volendo i lavoratori non avrebbero effettivamente tempo a disposizione per fare nulla. Per un subordinato esiste solo il tempo per lavorare, alimentarsi e riposare.

Chi lavora non ha il tempo necessario per veder crescere i propri figli, non ha tempo per praticare assiduamente uno sport all’aria aperta, non ha tempo per studiare, per dipingere o per suonare uno strumento musicale. Il tutto deve essere svolto solo sporadicamente, sfruttando dei rari momenti di lucidità mentale ed energia fisica, in ancor più rari momenti di libertà.

La vita viene ridotta a un ruolo, non si è più esseri umani completi, vitali, liberi ma operai, impiegati, progettisti… ingranaggi di una macchina che sfugge dal proprio controllo. Lavorando il tempo passa e l’esistenza perde di significato; il doppio ruolo di lavoratore-consumatore che il capitale ha pensato per gli esseri umani, annulla il senso dell’esistenza.

Il lavoro ostacola gli individui nel vivere la vita, e a un certo punto molti si rifugiano nell’alcol o nella droga per cercare di evadere da un’esistenza inutile e priva di senso da schiavi del capitale. Ma com’è possibile che la massa non si ribelli di fronte all’ingiustizia dell’asservimento dell’uomo sull’uomo e all’annullamento del senso della propria esistenza?

All’interno dell’odierna società capitalistica il lavoro è un potente mezzo per il controllo sociale. Individui che non hanno tempo per pensare, per studiare, la cui creatività è annullata dalla quotidiana attività lavorativa e che per sopravvivere dipendono completamente dalla loro subordinazione, difficilmente riusciranno a ribellarsi. Non avendo tempo e lucidità per ampliare i propri orizzonti intellettuali, non si interesseranno alle conoscenze necessarie per comprendere la realtà.

Annullando la loro creatività, pur comprendendo le criticità, non riusciranno a concepire un’alternativa. Le strade praticabili per l’esistenza dall’infinito spettro del possibile saranno così ridotte esclusivamente alla via della subordinazione. La paura di perdere anche quel poco concessogli dal proprio sfruttamento farà il resto, condannando perennemente i lavoratori a una vita da schiavi.

Paradossalmente, se un individuo è allenato a credere che non ci siano altre possibilità, andrà volontariamente in cerca del proprio schiavista, invece di rifuggirlo o combatterlo. In questo modo, il modello d’asservimento diventa stabile e pur in presenza di alternative non si modificherà, riservando alle  future generazioni subordinazione e sfruttamento invece che libertà.

Ed è proprio ciò che sta accadendo oggi. Le persone non pensano che la società possa effettivamente cambiare, che l’asservimento possa essere eliminato e che esistano delle logiche socio-economiche differenti in grado di assicurare a tutti benessere e libertà. La tipica domanda è: allora che cosa possiamo fare? Gli esseri umani hanno bisogno di tempo per vivere la vita, all’interno di una società che assicuri a tutti «pane, libertà, amore e scienza», volendo citare Malatesta.

Bisogna unirsi e iniziare a cooperare nell’interesse generale senza più guardare al profitto, attuando i cambiamenti necessari per concretizzare il benessere dell’intera umanità. Ma per far questo è di fondamentale importanza prendere coscienza della propria condizione di sfruttamento e dell’esistenza di alternative concrete da poter attuare per raggiungere giustizia sociale, uguaglianza e libertà.

Tratto dal saggio: “L’illusione della libertà”, di Mirco Mariucci, bestseller di Amazon nella categoria sociologia. Disponibile anche in download gratuito al seguente indirizzo: http://utopiarazionale.blogspot.it/p/lillusione-della-liberta.html

Fonte: http://utopiarazionale.blogspot.it/2014/10/il-lavoro-come-mezzo-di-controllo.html

SCHIAVI DI UN DIO MINORE
Sfruttati, illusi, arrabbiati: storie dal mondo del lavoro di oggi
di Loredana Lipperini, Giovanni Arduino

Schiavi di un Dio Minore

Sfruttati, illusi, arrabbiati: storie dal mondo del lavoro di oggi

di Loredana Lipperini, Giovanni Arduino

Gli schiavi di un dio minore vivono tra noi, anche se non li vediamo. Ne rimangono tracce sui giornali: il trafiletto su un bracciante morto di stenti in un campo di raccolta, l'editoriale sui magazzinieri che collassano a fine turno. Quelli che invece vivono lontani sono ridotti a numeri, statistiche: il tasso di suicidi nelle aziende asiatiche dove si producono a poco prezzo i nostri nuovi device, la paga oraria delle operaie cinesi o bengalesi che rendono così economici i nostri vestiti. D'altra parte si sa, l'abbattimento dei prezzi, senza intaccare i guadagni, si ottiene sacrificando i diritti e a volte la vita dei lavoratori, a Dacca come a Shenzhen o ad Andria. 

Ma non si tratta solo di delocalizzare o impiegare manodopera immigrata. La schiavitù si insinua nelle pieghe della modernità più smagliante: non c'è in fondo differenza tra i caporali dei braccianti e i braccialetti elettronici, i microchip, le telecamere e le cinture GPS, strumenti pensati per la sicurezza ma votati al controllo. Per non parlare della mania del feedback, del commento con le stellette, l'ossessione per il costumer care che mentre coccola il cliente dà un altro giro di vite alla condizione dei lavoratori. 

E dove manca il padrone, c'è lo schiavismo autoinflitto dei freelance, che sopravvivono al lordo delle tasse, senza ferie pagate, contributi, tempo libero. Indipendenti, sì, ma incatenati alle date di consegna e al giudizio insindacabile dei committenti, ai loro tempi biblici di pagamento. 

Nella trionfante narrazione dell'oggi, tutta sharing economy, start up e "siate affamati, siate folli", non c'è spazio per questi schiavi moderni. Ed è proprio raccogliendo le loro storie, le loro voci soffocate, che Giovanni Arduino e Loredana Lipperini smascherano gli inganni del nostro tempo, in cui la vita lavorativa si fa ogni giorno più flessibile, liquida, arresa: se la struttura legislativa del lavoro si smaterializza, tornare a parlare di corpi, a far parlare le persone, è un modo per non rassegnarsi e resistere.

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