Come è morto mio papà a Monza durante la pandemia: con le piaghe sul viso e la Cpap fissata con giri di scotch al collo. Solo una telefonata di commiato: “È venuta a mancare completamente l’umanità, sotto le più svariate forme”. Il racconto di Elisabetta Stellabotte.
Elisabetta Stellabotte è la figlia di Antonio Stellabotte, che è morto a Monza durante la pandemia. Ha intentato un processo per capire cosa sia successo al padre.
“Mio padre è morto nel marzo 2021 all’ospedale di Monza”, racconta. “Cosa succede? Viene ricoverato in realtà per un rialzo febbrile di origine medica. Dopo due giorni di ricerche per capire dove fosse stato collocato nei reparti, riusciamo finalmente a sapere che è stato messo nel reparto di medicina. Vengo contattata prima da mio padre, che mi dice di stare tranquilla, che lui sta bene e che gli infermieri ci riferiranno tutto.
Dopo qualche ora, però, mi chiama la dottoressa dicendomi che mio padre è risultato positivo al Covid. Ho avuto subito la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava, perché in un primo momento mi era stato detto che avrebbero potuto dimetterlo il giorno successivo, dato che non presentava condizioni gravi. Ma il giorno dopo vengo richiamata e mi dicono che lo avrebbero trattenuto per un innalzamento della temperatura a 38 gradi.
La dottoressa mi comunica che mio padre non rientra nei protocolli per la terapia intensiva. Mi dice testualmente: ‘Le dico subito che il papà non rientra tra i pazienti che io porterò in terapia intensiva per salvarlo, perché ha 77 anni, è diabetico, e quindi darò la precedenza ad altri’. Nei giorni successivi non viene fatto molto. Io continuo a sentirlo, lo vedo anche in videochiamate, comunichiamo benissimo: non ha alcuna difficoltà a respirare, mi parla, mi racconta quanto gli succede.
Poi, al quarto giorno, si interrompono le comunicazioni. Non risponde più. Dopo svariate telefonate, vengo a sapere che il papà è stato legato ai polsi e ai piedi perché si agitava e voleva tornare a casa. Ho intimato di chiamare i carabinieri e ho avuto un’accesa discussione con la dottoressa, che mi diceva che mio padre non era collaborativo, non era lucido e aveva perso il senso dell’orientamento. Quando ho minacciato di chiamare i carabinieri, miracolosamente lo hanno slegato e mi hanno permesso di parlargli. Mio padre, infatti, era perfettamente lucido, mi riconosceva e parlava normalmente. La dottoressa si è scusata, dicendo che probabilmente si erano sbagliati.
C’è da dire che nei dieci giorni di ricovero mio padre è stato visitato da diversi medici, ma nessuno specializzato in malattie polmonari: dermatologi, dottori appena laureati, ma nulla di serio. Finché, al settimo giorno, mi dicono che lo metteranno sotto casco CPAP nonostante avesse una saturazione del 97%. Da quel momento inizia un netto peggioramento. Dopo due giorni lo tolgono dal CPAP e, nella cartella clinica, è scritto che è stato rimosso perché si temeva fosse difettoso o malfunzionante. Da lì a poco c’è stato il crollo.
La dottoressa mi ha chiamato dicendomi che avevano deciso di passare alle cure palliative. Io mi sono opposta con tutte le mie forze, ma non c’è stato nulla da fare. Il sabato sera mio padre mi chiama e mi dice: ‘Voglio uscire, vieni a prendermi stasera, subito’. Improvvisamente gli viene strappato il telefono e non riesco più a parlargli.
Il giorno dopo mi concedono una videochiamata di circa un minuto, dove ci dicono di salutarlo. Un congedo dalla vita che non auguro a nessuno. Dover andare da mia madre a dirle: ‘Tuo marito tra poco non sarà più in vita perché hanno deciso di fargli una puntura per accompagnarlo alla fine’ è stato straziante.
Hanno agito contro la nostra volontà. La dottoressa mi ha richiamato dicendomi che nella notte si sarebbe spento. Ho provato un dolore viscerale che non passerà mai. In quel momento sono impazzita dal dolore e ho minacciato di buttarmi dal tetto. A quel punto la dottoressa sembra rendersi conto della gravità della situazione e mi dice: ‘Mi scusi, non avevo capito che avevate l’esigenza di vedere vostro padre’.
Penso che in questa vicenda sia venuta completamente a mancare l’umanità, in tutte le sue forme. È stato un dolore inimmaginabile.
La mattina successiva, alle cinque, ero già in ospedale. Ho avuto un’accesa discussione perché non volevano farmi entrare, ma la direzione sanitaria è intervenuta e ha detto: ‘Assolutamente salga, e se non trova le porte aperte chiameremo noi stessi i carabinieri’. Ho avuto pochi minuti per vederlo: era sotto una dose esagerata di morfina, con un CPAP che, a mio avviso, era spento o rotto. Aveva tre giri di nastro adesivo intorno al collo e piaghe da quanto aveva pianto.
Voglio assolutamente verità e giustizia, perché una cosa del genere è inaccettabile. Il fatto di non averlo potuto vedere, di non aver potuto riconoscere il suo corpo, è una sofferenza immensa”.
Cosa è successo poi lo spiega Barbara Balazioni, che sta seguendo il caso in tribunale: “Ho scritto una relazione di 72 pagine. Lui è stato trattato con morfina, midazolam e Serenase. A un certo punto, la dose di morfina era di 40 mg, una quantità mostruosa, il midazolam era a 45 mg, insieme al Serenase.
Bisogna considerare che la modalità della telefonata di commiato, di cui sia il paziente che la famiglia sono consapevoli, è una telefonata che serve a permettere un ultimo saluto prima della sedazione mortale. È un addio dato da un paziente che è ancora in grado di riconoscere e comprendere chi c’è dall’altra parte della chiamata. In pratica, è l’ultimo saluto di un condannato a morte, letteralmente.
Quello che racconta Elisabetta è, purtroppo, ciò che è accaduto a tantissime persone, messe nella condizione di fare questa telefonata di addio in un perfetto stato di lucidità”.
Riferimenti: https://www.youtube.com/watch?v=FtdFleQSfHU